Sinteticità del ricorso per cassazione vs. principio di autosufficienza: cronache di una guerra persa in partenza

Sinteticità del ricorso per cassazione vs. principio di autosufficienza: cronache di una guerra persa in partenza
12 Settembre 2016: Sinteticità del ricorso per cassazione vs. principio di autosufficienza: cronache di una guerra persa in partenza 12 Settembre 2016

La verbosità è uno dei difetti comunemente attribuiti agli avvocati italiani. Indubbiamente non mancano avvocati persuasi che un atto di cinquanta pagine (e a volte più) possa convincere il giudice della bontà dei loro argomenti, dimostri la loro competenza e la loro determinazione nel sostenere le ragioni del proprio cliente. Peraltro, la stessa giurisprudenza offre più di un esempio di sentenze pronunciate dalla stessa Cassazione su temi assai controversi, la cui notorietà si deve più alle interminabili divagazioni della loro motivazione che alla finezza dei loro argomenti. Insomma, “multa paucis” non sembra essere il motto dei giuristi italiani. In questi ultimi tempi si sono moltiplicati i tentativi di por rimedio ai nefasti effetti che questo vizio produce sul funzionamento della giustizia. Dal protocollo d’intesa fra Tribunale e Ordine degli avvocati di Torino del maggio 2012 al suo omologo milanese dell’ottobre 2012, al decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 40/2015 “in materia di dimensioni del ricorso e degli altri atti difensivi nel rito appalti”, fino ai protocolli d’intesa siglati dal Primo Presidente della Cassazione e dal Presidente del CNF il 17 dicembre scorso. E’ sintomatico che il protocollo riguardante i ricorsi “in materia civile e tributaria” esordisca lamentando l’”esistenza di un sempre maggior numero di ricorsi caratterizzati da un sovradimensionamento dell’esposizione dei motivi di impugnazione” e individui una della cause di tale sovrabbondanza nella “ragionevole preoccupazione dei difensori di non incorrere nelle censure di inammissibilità per autosufficienza”. Partendo da questo presupposto, il protocollo illustra vari accorgimenti che, nelle lodevoli intenzioni dei promotori, dovrebbero indurre gli avvocati a contenere i loro atti nei limiti complessivi di 35 pagine [redatte rigorosamente “mediante carattere di tipo corrente (Times New Roman, Courier, Arial o simili) e di dimensioni di almeno 12 pt nel testo, con un interlinea di 1,5 pt e margini orizzontali e verticali di almeno con. 2,5…)”]. Fra questi accorgimenti vi è una specifica e quanto mai opportuna puntualizzazione del significato da attribuire, in concreto, al “principio di autosufficienza” del ricorso. Chiarisce, infatti, il protocollo che questo “non comporta un onere di trascrizione integrale nel ricorso e nel controricorso di atti o documenti ai quali negli stessi venga fatto riferimento”, essendo sufficiente che l’estensore indichi “nel testo di ciascun motivo che lo richieda… il tempo (atto di citazione o ricorso originario, costituzione in giudizio, memorie difensive, ecc.) del deposito dell’atto, del documento… e la fase (primo grado, secondo grado, ecc.) in cui esso è avvenuto”. Insomma, tutto chiaro: per evitare la nemesi dell’inammissibilità per difetto di autosufficienza non è più necessario riempire i ricorsi con pagine e pagine di trascrizioni di atti di parte e documenti vari, essendo sufficiente citare con precisione a quale atto o documento ci si riferisca e in quale grado del processo sia stato depositato. Come tutti sanno, però, i “protocolli” non hanno valore normativo, ma sono delle raccomandazioni che possono radicarsi nella prassi solo per effetto di una volontaria e progressiva adesione da parte dei loro destinatari. Questa adesione ovviamente è condizionata al fatto che i primi ad applicarli siano proprio gli uffici giudiziari che li hanno promossi. Che dire allora degli esempi che stanno offrendo le Sezioni civili della Cassazione a pochi mesi di distanza dal varo del protocollo del 17 dicembre 2015? Prendiamo, ad esempio, la sentenza n. 12745/2016 pubblicata il 21 giugno 2016. Il caso è questo: un controricorrente si duole del fatto che il Giudice del merito abbia qualificato una determinata azione promossa dal suo contraddittore, attribuendole un certo contenuto piuttosto che un altro (azione di responsabilità per cose in custodia, anziché aquiliana), ed indicando a tal fine non solo l’atto di citazione introduttivo della lite con il quale tale azione era stata proposta, ma trascrivendone pure le parti che, a suo giudizio, sono a tal fine rilevanti. Alla luce del protocollo anzidetto si dovrebbe quindi concludere che egli avesse fatto perfino più del necessario (salva sempre la facoltà del suo contraddittore di indicare le diverse parti del medesimo atto che, eventualmente, a suo dire, potessero giustificarne una diversa interpretazione, ciò che peraltro non era avvenuto). La Corte invece non è stata di questo parere, ritenendo l’impugnazione così proposta “priva della necessaria autosufficienza” perchè “la mancata trascrizione dell’atto di citazione” (e cioè, si badi: dell’”intero” atto di citazione) “non consente a questa Corte di apprezzare appieno la censura, con riferimento al contenuto sostanziale della pretesa azionata in giudizio”. A fronte di un’applicazione del principio di autosufficienza così radicale e così difforme da quella proposta dal “protocollo” anzidetto, nessuno potrà certamente rimproverare gli avvocati se continueranno a trascrivere per intero atti e documenti nei loro ricorsi per cassazione, con gli effetti sulla “dimensione” di tali atti che si possono facilmente immaginare. Il difensore scrupoloso ed attento non potrà infatti correre il rischio di far dichiarare inammissibile un mezzo d’impugnazione da un Collegio inconsapevole o refrattario ai dettami del predetto “protocollo”, ma anzi si atterrà a quanto suggeritogli dalla massima prudenza.... Questa constatazione lascia però l’amaro in bocca a tutti coloro che hanno a cuore il buon funzionamento della giustizia civile. Nel contempo essa fa riflettere sul fatto che la verbosità non nasce solo da insipienze o esibizionismi dei singoli individui, ma anche da una concezione della giustizia civile irriducibilmente formalistica, così radicata nella classe forense e nella magistratura da resistere a qualsiasi tentativo di innovazione, e da imporre anche a chi non la condivide con atteggiamento prudenziale che non può certo essere biasimato.

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